Nella storiografia giapponese il Bakumatsu (幕末? lett. "fine del bakufu") sono stati gli ultimi anni del duecentenario shogunato Tokugawa, ed in senso più lato la fine del sistema feudale e stratocratico facente capo agli shōgun. Segnò dunque il passaggio dal periodo Edo (1603-1868) al periodo Meiji (1868-1912), il quale aprì una lunga fase d'incessante modernizzazione e, in parte, occidentalizzazione del Paese.
Si caratterizza per una serie brusca e turbolentissima d'eventi accaduti tra il 1853, quando la centenaria politica isolazionista nazionale conosciuta come sakoku venne repentinamente e coattamente interrotta, ed il 1867, quando la corte imperiale - forte anche del sostegno occidentale - decise di restaurare la propria autorità regia sull'intero Paese (il cosiddetto Rinnovamento Meiji), portandovi di conseguenza alla guerra civile.
La maggior divisione e contrapposizione politica ed ideologica di questo periodo fu perciò quella tra i lealisti dell'Imperatore e nazionalisti shishi (志士?), riuniti dietro il motto neoconfuciano del sonnō jōi (尊皇攘夷, "riverire il tennō, espellere i barbari"), e le forze dello shogunato, che includevano l'unità di polizia chiamata shinsengumi. Nel caos del Bakumatsu molte altre fazioni tentarono di guadagnare rilevanza.[1] Tra i fattori che sicuramente aggravarono lo scontro e portarono alla caduta dei Tokugawa vanno annoverati i risentimenti dei tozama daimyō, feudatari che avevano combattuto contro le forze dei Tokugawa nella Battaglia di Sekigahara del 1600 e che, con la vittoria dei Tokugawa, erano stati poi esclusi permanentemente da tutte le posizioni di potere in seno allo shogunato per oltre 250 anni.