Il crac Parmalat fu una truffa per bancarotta fraudolenta e aggiotaggio finita col fallimento della società alimentare italiana Parmalat. Considerata la più grande truffa del genere perpetrata da una impresa privata in Europa,[1][2] venne scoperta solo verso la fine del 2003, nonostante successivamente sia stato dimostrato come le difficoltà finanziarie dell'azienda fossero rilevabili già agli inizi degli anni novanta.
L'ammanco lasciato dalla società di Collecchio, mascherato dal falso in bilancio, si aggirava sui quattordici miliardi di euro[3]; al momento della scoperta se ne stimavano la metà[4]. Con l'accusa di bancarotta fraudolenta è stato rinviato a giudizio e in seguito condannato a diciotto anni di reclusione il patron della Parmalat, Calisto Tanzi, nonché numerosi suoi collaboratori tra dirigenti, revisori dei conti e sindaci. Il crollo finanziario della società è costato l'azzeramento del patrimonio azionario ai piccoli azionisti, mentre i risparmiatori che avevano investito in obbligazioni hanno ricevuto solo un parziale risarcimento.
L'impresa, grazie agli effetti della legge 18 febbraio 2004, n. 39, fu salvata dalla cessazione dell’attività; la sua direzione fu affidata all'amministrazione straordinaria speciale di Enrico Bondi, che ne risanò parzialmente i conti a partire dal 2005.