«Che esista una questione meridionale, nel significato economico e politico della parola, nessuno più mette in dubbio. C'è fra il nord e il sud della penisola una grande sproporzione nel campo delle attività umane, nella intensità della vita collettiva, nella misura e nel genere della produzione, e, quindi, per gl'intimi legami che corrono tra il benessere e l'anima di un popolo, anche una profonda diversità fra le consuetudini, le tradizioni, il mondo intellettuale e morale.»
La locuzione questione meridionale indica, nella storiografia italiana, la percezione, maturata nel contesto postunitario[2], della situazione di persistente arretratezza nello sviluppo socioeconomico delle regioni dell'Italia meridionale rispetto alle altre regioni del Paese, soprattutto quelle settentrionali.
Utilizzata la prima volta nel 1873 dal deputato radicale lombardo Antonio Billia, intendendo la disastrosa situazione economica del Mezzogiorno in confronto alle altre regioni dell'Italia unita,[3] viene talvolta adoperata nel linguaggio comune ancora oggi.
La questione meridionale resta ancora oggi aperta, per una serie di motivazioni di carattere economico. Infatti, il ritardo nello sviluppo rispetto al Centro-Nord, anche successivamente alla Seconda guerra mondiale, non si sarebbe mai potuto annullare del tutto, dal momento che, nel periodo che va dal 1971 (da quando i dati sono disponibili) al 2017, lo stato italiano ha investito in media per abitante, molto più al centro-nord che al sud, rendendo non solo incolmabile il divario, ma anzi, accentuandolo.[4][5] Secondo il rapporto Eurispes: Risultati del Rapporto Italia 2020, se della spesa pubblica totale, si considerasse la fetta che ogni anno il Sud avrebbe dovuto ricevere in percentuale alla sua popolazione, emerge che, complessivamente, solo dal 2000 al 2017, la somma corrispondente sottrattagli ammonta a circa 840 miliardi di euro netti (in media, circa 46 miliardi di euro l’anno)[5].