Il signoraggio in Italia è stato sempre presente, sin da prima che dopo l'unità d'Italia.
L'Italia è stata caratterizzata da uno straordinario[1][2][3] livello di dominanza fiscale, cioè dall'asservimento delle autorità monetarie al governo[4][5]: tanto dal punto di vista quantitativo quanto dal punto di vista dell'indagine storica, gran parte della politica monetaria è stata modellata sulle decisioni di politica fiscale del governo[5][6].
Ciò è avvenuto sin dai tempi della Banca Nazionale degli Stati Sardi (1850), della Banca Nazionale del Regno d'Italia (1867) e di Banca d'Italia (1893): ciascuna banca cercava di ottenere il monopolio dell'emissione della moneta, e le buone relazioni con la politica venivano percepite come un elemento essenziale della loro strategia[4]. Il ricorso al signoraggio da parte del governo aumentò in maniera sorprendente dopo che la Banca d'Italia ottenne il monopolio nell'emissione della moneta (1926)[5]. Per capire fino a che punto il signoraggio e la tassa da inflazione si radicarono nell'economia italiana si noti che prima del 1926 il signoraggio rappresentava l'1,7% del reddito e la tassa da inflazione rappresentava lo 0,4% del reddito; dopo il 1926 il signoraggio salì al 5,5% del reddito e la tassa da inflazione salì al 5,3% del reddito[5]. Queste statistiche confermano ulteriormente che se vi è una caratteristica distintiva dell'economia italiana, questa riguarda l'atteggiamento eccessivamente accomodante delle autorità monetarie[5][7].
L'apice di tale dominanza fiscale avvenne sotto il governatorato di Guido Carli (1960-1975), periodo in cui, oltre a monetizzare larga parte del deficit pubblico, Banca d'Italia si mostrò accomodante nei confronti del governo anche attraverso una serie di misure regolamentari-amministrative[8][9]. L'obiettivo fu quello di canalizzare il risparmio nazionale dal settore privato a quello pubblico, mantenendo i tassi d'interesse artificialmente bassi[8]. Il mantenimento dei tassi d'interesse a un livello molto basso rese semplice, per il governo, posticipare le necessarie politiche di aggiustamento ma causò un ulteriore incremento del deficit[8]. Furono altresì introdotte misure amministrative restrittive sul mercato dei cambi allo scopo di limitare l'accesso degli operatori - famiglie, imprese e banche - alle condizioni più favorevoli presenti sui mercati esteri. Ciò causò pertanto l'isolamento internazionale finanziario dell'Italia in quegli anni[10].
A questa mancata indipendenza dell'autorità monetaria rispetto all'autorità fiscale viene imputata in parte l'impennata della spesa pubblica e del debito pubblico italiani, nonché gli alti livelli d'inflazione del periodo. Se infatti l'obbligo di Banca d'Italia verso il governo aveva contribuito a de-responsabilizzare il governo stesso e a far andare la spesa pubblica fuori controllo, questo, dopo il divorzio, non fu capace di abbattere il debito con i soli strumenti di politica fiscale[11][12].
Solo l'ingresso dell'Italia nel Sistema Monetario Europeo, e il conseguente divorzio di Banca d'Italia dal Tesoro (1981), restituì credibilità alla Banca centrale[8]. Sotto la spinta dell'Unione Monetaria Europea e del Trattato di Maastricht, Banca d'Italia intraprese infine ulteriori passi per migliorare la propria indipendenza dal governo[8][13][14].
Nel 2002 l'allora ministro dell'economia Giulio Tremonti propose di stampare banconote da 1 e 2 euro. Il 12 settembre l'allora presidente della BCE Wim Duisenberg in una conferenza stampa, in risposta a Tremonti, disse:[15]
«Non abbiamo progetti di introdurre banconote da 1 o 2 euro, ma ne abbiamo sentito parlare. Naturalmente, ne abbiamo discusso. Stiamo valutando le implicazioni di introdurre tali banconote. In linea di principio non abbiamo niente contro questo progetto, ma stiamo valutando le implicazioni e spero che il signor Tremonti si renda conto che se tale banconota dovesse essere introdotta, egli perderebbe il diritto di signoraggio che si accompagna ad essa. Dunque se egli, come Ministro dell'economia, ne sarebbe contento non lo so.»