Per poter comprendere la storia della siderurgia, è necessario avere presente le seguenti definizioni:
Ferro: attualmente con tale termine si intende l'elemento chimico Fe o ferro puro (il quale fonde a circa 1538 °C,[1] ha scarsissime proprietà tecnologiche e presenta un'elevata facilità ad ossidarsi); ma nell'antichità e fino al XIX secolo la parola identificava quel particolare tipo di ferro che era malleabile a caldo e non prendeva la tempra.
Ferro battuto: lega ferro-carbonio a bassissimo tenore di carbonio, malleabile, di cui sopra.
Acciaio: lega ferro-carbonio, con contenuto ponderale[2] di carbonio fino al 2,11%. Nell'antichità e fino al XVIII secolo si pensava fosse un particolare tipo di ferro cui mancava qualcosa. Era ottenuto in forni chiusi o per parziale aggiunta di ghisa al ferro in crogioli: la sua caratteristica era la "fragilità" cioè la poca resistenza alla frattura a freddo e la sua temprabilità a caldo.
Ghisa: lega ferro-carbonio, con contenuto ponderale di carbonio superiore al 2,11%. È troppo fragile per essere lavorata per forgiatura. La ghisa in getti si otteneva da forni chiusi di particolare fattura, insufflati con macchine mosse da ruote idrauliche a partire dal XII secolo in Svezia, Germania e Nord Italia. Dalla ghisa si otteneva ferro o acciaio nelle fucine, anch'esse alimentate con mantici idraulici.[3]
^Archeometallurgia del ferro, su archeologiamedievale.unisi.it. URL consultato il 26 marzo 2009 (archiviato dall'url originale il 1º aprile 2009).
^L'aggettivo "ponderale" fa riferimento al termine "concentrazione in massa" o "percentuale in massa", con il quale si indica la concentrazione espressa dal rapporto tra la massa del componente in miscela e la massa totale della miscela, moltiplicato per 100.
^Enzo Baraldi, Una nuova età del ferro: macchine e processi della siderurgia, in Il Rinascimento italiano e l'Europa, Volume III: Produzioni e tecniche, Treviso, Angelo Colla editore, 2007. ISBN 978-88-89527-17-7.